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Le CER permettono di produrre, immagazzinare e consumare energia elettrica all’interno della medesima area geografica

Nel settore dell’energia rinnovabile hanno un ruolo sempre più importante le Comunità Energetiche Rinnovabili (CER)

rappresentano una risposta innovativa e partecipativa al necessario processo di decarbonizzazione dei territori

I progetti sulle comunità energetiche rinnovabili attivi nell’unione europea

I cittadini europei che partecipano a progetti sulle comunità energetiche RINNOVABILI

Attraverso la collaborazione tra cittadini, imprese ed enti pubblici, l'obiettivo principale delle Comunità Energetiche Rinnovabili (CER) risiede nel cosiddetto “autoconsumo diffuso”, che consiste nella condivisione dell’energia prodotta localmente all’interno della comunità, con benefici economici, sociali e ambientali. I cittadini dell’Unione Europea che partecipano a progetti sulle comunità energetiche rinnovabili sono oltre 1.250.000. Il paese europeo con il maggior numero di comunità energetiche, secondo uno studio del Centro Comune di Ricerca dell’Unione Europea del 2020, è la Germania, con 1.750 comunità, seguito dalla Danimarca (700) e dai Paesi Bassi (500). L’Italia rimane indietro con, a oggi, circa 25 CER installate, ma se ne prevede l’estensione. L’adozione di Comunità Energetiche Rinnovanbili su un territorio come quello italiano, caratterizzato dalla presenza di tanti piccoli Comuni (con popolazione inferiore a 5.000 abitanti), rappresenta infatti un modo per stimolare l’aggregazione di realtà locali, sviluppando sinergie e favorendo la valorizzazione e la condivisione di risorse del territorio. I ruoli in una CER possono essere di tre tipi: i consumatori, i produttori e il referente.

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I consumatori (consumer) sono i titolari di uno o più punti di prelievo dell’unità di consumo (POD) e, quindi, intestatari di una o più bollette elettriche. Tutti i consumatori devono essere anche membri della comunità: sono ammessi a questo ruolo enti pubblici, PMI, persone fisiche, enti religiosi, associazioni, mentre sono escluse le grandi aziende e i soggetti che hanno come attività principale la produzione e vendita di energia.

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I produttori sono i soggetti che hanno realizzato un nuovo impianto di produzione da fonte rinnovabile. Se i produttori hanno anche un consumo collegato all’impianto rinnovabile sono definiti prosumer: questi soggetti autoconsumano direttamente (fisicamente) parte dell’energia prodotta, mentre l’eccesso di energia che immettono in rete può essere condivisa con gli altri membri della comunità e generare incentivo. I produttori (e i prosumer), possono essere sia membri CER sia produttori terzi (non partecipanti al soggetto giuridico): grandi aziende ed ESCo possono quindi qualificarsi come produttori terzi delle CER e mettere a disposizione dei territori i propri impianti al fine di generare energia condivisa e l’incentivo del GSE  

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Il referente è colui che gestisce i rapporti tra la CER e il Gestore dei Servizi Energetici (GSE), ai fini dell’ottenimento dell’incentivo e della redistribuzione dello stesso. Questo ruolo richiede competenze avanzate di tipo normativo, giuridico, tecniche, e può essere svolto anche da un soggetto terzo esterno alla CER – purché sia una ESCo certificata UNI 11352 che mette a disposizione della CER il proprio impianto per la produzione di energia rinnovabile. 

Le Comunità Energetiche Rinnovabili figurano come enti giuridici senza scopo di lucro, il cui obiettivo è la condivisione di energia da impianti di fonti rinnovabili a livello locale. Ogni impianto messo a disposizione della CER può avere potenza nominale fino a 1 MW. La comunità unisce impianti di produzione e membri, in termini di punti di connessione alla rete elettrica nazionale (POD), afferenti alla stessa cabina primaria (o cabina di trasformazione alta-media tensione), permettendo la condivisione di energia tra quartieri e persino tra piccoli comuni limitrofi. All’inizio del 2024 si è fatto un ulteriore passo avanti a livello normativo grazie alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell’atteso decreto attuativo che permette lo sviluppo concreto delle CER e grazie all’arrivo delle regole tecniche del GSE. 

Per i comuni piccoli con meno di 5.000 abitanti è stato previsto un contributo PNRR a fondo perduto che copre fino al 40% dei costi di realizzazione di un impianto di produzione di energia rinnovabile, inserito in una CER. Per tutto il territorio nazionale è stata confermata una tariffa che incentiva l’uso dell'energia rinnovabile prodotta e condivisa localmente. Inoltre, sono state introdotte norme che valorizzano la componente di cittadini e pubblica amministrazione, nonché la funzione sociale delle CER: si è infatti escluso che possano partecipare grandi imprese (con più di 250 dipendenti, con un fatturato superiore a 50 milioni di euro e che realizzano un totale di bilancio annuo superiore a 43 milioni di euro) ed è stato stabilito che le piccole e medie imprese partecipanti alla CER non possano ricevere l’incentivo oltre una soglia fissa stabilita dalla normativa. L’obiettivo del decreto CER è di incentivare la produzione e la condivisione locale fino a 5 GW di nuova potenza installata entro il 2027. 

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L'obiettivo principale delle CER è promuovere l'autoproduzione e l'autoconsumo di energia da fonti rinnovabili, riducendo la dipendenza dalle fonti fossili e favorendo la transizione energetica.

Se la loro diffusione crescesse, le CER consentirebbero investimenti nell’ambito delle energie rinnovabili di oltre 13 miliardi di euro, con ricadute economiche sull’intero indotto pari a circa 2,2 miliardi di euro. Inoltre, contribuirebbero a creare 19.000 nuovi posti di lavoro, e a ridurre le tonnellate di CO₂ in atmosfera di 47 milioni, come descritto nello studio Comunità Rinnovabili 2022 di Legambiente. 

Se le Comunità Energetiche Rinnovabili sono la forma più nota per favorire la condivisione di energia, non sono l’unico modello perseguibile: in questo senso esistono altri esempi virtuosi e innovativi come gli impianti di teleriscaldamento, le Hydrogen Valley e i poli di biometano, che prevedono tutti una produzione locale di energia green, che può essere messa a disposizione di un intero territorio al fine di favorirne il percorso di decarbonizzazione. 

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Teleriscaldamento

Il teleriscaldamento permette di riscaldare edifici e condomini e fornire acqua calda sanitaria con l’utilizzo di energia prodotta da uno o più impianti presenti sul territorio. La distribuzione del calore può essere di tipo diretto o indiretto. Nel primo caso, un unico circuito idraulico collega la centrale di produzione dell’energia termica con il corpo scaldante (termosifone o piastra) dell'utente. Nel secondo caso, sono presenti due o più circuiti separati, mantenuti in contatto attraverso scambiatori di calore. La fonte di questo calore sta diventando sempre più green e può essere generata, oltre che da tecnologie tradizionali basate sulla cogenerazione ad alto rendimento, tramite diversi possibili modi.

Le pompe di calore che consentono di recuperare il calore dell’acqua di falda e metterlo a disposizione del territorio attraverso la rete di teleriscaldamento. 

Le caldaie a biomassa che sfruttano la biomassa proveniente dalla filiera corta locale e valorizzano le risorse territoriali a favore dell’intera comunità.

I cascami termici, ovvero l’energia termica in eccesso prodotta dall’industria, che può essere recuperata e immessa nella rete, integrando il calore prodotto dagli altri impianti. In questo modo si valorizza l’energia che altrimenti sarebbe dispersa generando un processo virtuoso.

In Italia il teleriscaldamento è diffuso principalmente in Lombardia con oltre 1400 km di reti, per un totale di circa 4 TWh di calore diffuso. Seguono il Piemonte e il Trentino-Alto Adige

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Hydrogen Valley

Le Hydrogen Valley sono classificabili come delle aree con un’economia e un progetto di sostenibilità basati sull’idrogeno verde. Rappresentano una virtuosa forma di condivisione di energia green che può essere messa a disposizione dell’intero territorio, condividendone i benefici tra i vari soggetti e favorendo la decarbonizzazione sia dei settori industriali, in particolare delle realtà energivore, sia dei trasporti, soprattutto quelli “pesanti”.

Per agevolarne la diffusione l’Unione Europea ha costituito una piattaforma di monitoraggio chiamata H2V per facilitare la condivisione di informazioni sulle Hydrogen Valley: in tutta Europa sono 61 i progetti tra quelli in studio, in via di sviluppo e quelli già operativi, che tuttavia, sono solo tre e si trovano in Spagna e in Danimarca e in Germania. Quest’ultimo è il paese con lo sviluppo maggiore di Hydrogen Valley con 16 progetti in via di costruzione. Seguono l’Olanda e la Spagna con sei progetti e il Portogallo con cinque. L’Italia è in fondo con tre progetti in fase di studio. In media ogni paese europeo ha speso, o ha programmato di spendere, circa 2 miliardi di euro. L’Italia per i tre progetti ha investito 355 milioni a cui vanno aggiunti i 500 milioni di euro stanziati dal PNRR per la creazione di Hydrogen Valley, recuperando ex aree industriali dismesse. 

A dare una forte spinta alla diffusione dell’idrogeno verde ci sono anche gli Importanti Progetti di Interesse Comune Europeo (IPCEI), progetti di cooperazione europea in cui le aziende, gli Stati membri e la Commissione Europea, ciascuno con il proprio ruolo, lavorano insieme per raggiungere un obiettivo comune. Finora sono stati approvati l’IPCEI Hy2Tech (luglio 2022) dedicato allo sviluppo di nuove tecnologie legate all’idrogeno, l’IPCEI Hy2Use (settembre 2022) incentrato sulle applicazioni dell’idrogeno nel settore industriale e l’IPCEI Hy2Infra (febbraio 2024) dedicato allo sviluppo di poli regionali dell’idrogeno che contribuiscono alla creazione di una rete UE dell’idrogeno. Quest’ultimo prevede che i sette Stati membri coinvolti forniscano fino a 6,9 miliardi di euro di finanziamenti pubblici, l’importo di aiuti più elevato approvato finora per gli IPCEI nel campo dell’idrogeno (l’IPCEI Hy2Tech prevedeva 5,4 miliardi di euro complessivi per 15 Paesi, l’IPCEI Hy2Use 5,2 miliardi di euro complessivi per 13 Paesi). 

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Poli di biometano

I poli di biometano sono aree che possono beneficiare di uno o più impianti di biometano per produrre gas verde, ottenuto dalla frazione organica dei rifiuti solidi urbani, così come da biomasse agricole o agroindustriali, da scarti alimentari inutilizzati e fanghi provenienti dal trattamento di acque reflue. Lasciati fermentare, questi composti producono biogas che, dopo un processo di raffinazione e purificazione (upgrading), viene trasformato in biometano liquido o gassoso che può essere utilizzato in sostituzione del gas naturale. Dopo la Germania e la Francia, l’Italia è il terzo paese dell’Unione Europea per potenziale tecnologico e naturale nello sviluppo del biometano, ed entro il 2030 potrebbe arrivare a produrne 5,7 milioni di metri cubi all’anno (ma questa cifra potrebbe persino raddoppiare entro il 2050).

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Il biometano, simbolo dell’economia circolare essendo prodotto valorizzando gli scarti dei territori, permette di contribuire a risolvere il problema della corretta gestione dei rifiuti, a ridurre i gas serra e a sganciarsi progressivamente dalla dipendenza dai combustibili fossili. È un vettore che può soddisfare le esigenze di consumo sia su scala locale che nazionale, premiando in entrambi i casi il principio della condivisione di energia. A livello locale, infatti, uno o più impianti di biometano possono soddisfare i fabbisogni energetici di un distretto industriale, che così può sviluppare una produzione sostenibile, condividendo energia sia termica che elettrica. Il biometano, inoltre, attraverso la rete, può essere messo a disposizione dell’intero paese per soddisfare i bisogni energetici a livello nazionale, favorendo la condivisione di energia sostenibile.

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I poli di biometano rappresentano un approccio avanzato e sostenibile alla produzione di energia rinnovabile, contribuendo alla riduzione delle emissioni di gas serra.

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Fonti energetiche rinnovabili

4.1

Teleriscaldamento

Il caso di Cesano Boscone: un modello di ultima generazione da seguire

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Condivisione di energia

4.2

CER solidali

Un modello virtuoso che premia gli edifici scolastici